La Beta-Amiloide: la miccia silenziosa dell’Alzheimer

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La scoperta del ruolo della beta-amiloide nell’Alzheimer ha rivoluzionato la ricerca. Oggi esistono terapie mirate come Leqembi (lecanemab) e Kisunla (donanemab), capaci di rallentare la malattia nelle fasi iniziali. Ma il fattore tempo è cruciale: la diagnosi precoce può fare la differenza. In questo articolo spieghiamo, con un linguaggio semplice, cos’è la beta-amiloide, perché è pericolosa, come si può rilevare e quali trattamenti sono oggi disponibili in Italia.

Che cos’è la beta-amiloide?

Immagina il cervello come una grande rete elettrica: tutto deve funzionare con precisione e in armonia. La beta-amiloide (Aβ) è un piccolo frammento di proteina che si forma naturalmente nel nostro cervello durante la “manutenzione” delle cellule. Viene tagliata da una proteina più grande chiamata APP (proteina precursore dell’amiloide) tramite un meccanismo di taglio chimico effettuato da due enzimi (β-secretasi e γ-secretasi).

Normalmente, il nostro organismo è in grado di produrre e poi smaltire queste molecole senza problemi. Ma quando questo equilibrio si rompe – per motivi genetici, metabolici o ambientali – la beta-amiloide inizia ad accumularsi, e lì iniziano i guai.

 Cosa fa la beta-amiloide nel cervello?

Quando la beta-amiloide si accumula in eccesso, tende a raggrupparsi. All’inizio forma piccoli agglomerati chiamati oligomeri, che sono ancora solubili e possono muoversi facilmente nel cervello. Successivamente, si uniscono in catene più lunghe e formano placche, ovvero depositi solidi visibili al microscopio.

È importante sapere che non sono solo le placche a causare danni, ma soprattutto gli oligomeri: queste forme “intermedie” sono particolarmente tossiche perché:

  • Si attaccano alle membrane delle cellule nervose e le rendono instabili, facendo entrare troppo calcio e alterando la comunicazione tra neuroni;
  • Bloccano i segnali che servono a rafforzare le connessioni nervose (un processo noto come “potenziamento a lungo termine”, fondamentale per la memoria);
  • Alterano la trasmissione del glutammato, un messaggero chimico chiave per l’apprendimento.

L’interazione tra Aβ e la proteina Tau

La beta-amiloide non è l’unica responsabile del danno cerebrale nell’Alzheimer. Uno dei suoi effetti peggiori è che disturba il funzionamento di un’altra proteina fondamentale: la Tau.

Nel cervello sano, la proteina Tau aiuta a mantenere in ordine i microtubuli, delle sottili strutture all’interno dei neuroni che funzionano come binari. Su questi “binari” viaggiano i nutrienti, le proteine e i messaggi chimici di cui la cellula ha bisogno per vivere e comunicare. Tau fa da “stabilizzatore” per questi microtubuli, mantenendoli in forma e funzionanti.

Quando però si accumula troppa beta-amiloide, Tau comincia a comportarsi in modo anomalo. Viene modificata chimicamente in modo scorretto e non riesce più a svolgere il suo compito. Così, si stacca dai microtubuli e inizia ad accumularsi dentro i neuroni, formando dei grovigli tossici.

Questo disastro interno porta le cellule nervose a perdere la loro struttura, bloccare il trasporto interno, interrompere le comunicazioni con le altre e, infine, morire. Questo processo contribuisce in modo diretto alla perdita di memoria e alle altre difficoltà cognitive tipiche dell’Alzheimer.

Come si può rilevare la beta-amiloide?

Individuare la Aβ in una fase precoce della malattia è fondamentale. Ecco i metodi principali:

  1. Imaging PET: un esame di diagnostica per immagini che permette di “fotografare” le placche amiloidi nel cervello. Sorprendentemente, si possono vedere fino a 15 anni prima dei primi sintomi di Alzheimer.
  2. Analisi del liquido cerebrospinale (CSF): un prelievo spinale consente di misurare i livelli di Aβ. Una riduzione dei livelli di Aβ42 nel liquido è uno dei segnali più precoci della malattia – rilevabile 25 anni prima della comparsa dei disturbi cognitivi.
  3. Biomarcatori nel sangue: tecnologie molto recenti riescono a individuare la presenza di Aβ anche nel sangue. Questo rappresenta un potenziale rivoluzionario perché consente uno screening rapido, economico e non invasivo.

Chi è più a rischio di Alzheimer?

L’Alzheimer può colpire chiunque, ma non tutti abbiamo lo stesso rischio. Alcuni fattori aumentano le probabilità di sviluppare la malattia. Il principale è l’età: dopo i 65 anni, il rischio raddoppia ogni cinque anni. Ma ci sono anche altri elementi da tenere d’occhio:

I rischi dell'Alzheimer.
  • Avere familiari stretti (genitori o fratelli) che ne hanno sofferto;
  • Portare una particolare variante genetica chiamata APOE ε4;
  • Soffrire di ipertensione, diabete, colesterolo alto o obesità;
  • Vivere in condizioni di isolamento sociale o con scarso stimolo mentale.

Sapere di essere a rischio non significa che la malattia sia inevitabile, ma che vale la pena tenersi informati e monitorare i segnali precoci. La prevenzione comincia dalla consapevolezza.

Cosa puoi fare oggi per proteggere il tuo cervello

Anche se non esiste ancora una cura definitiva, possiamo fare molto per prenderci cura della nostra salute cerebrale. Le strategie più efficaci sono semplici, ma potenti:

  • Fai attività fisica regolare: camminare 30 minuti al giorno può fare la differenza;
  • Segui una dieta sana: la dieta mediterranea o la dieta MIND aiutano il cervello;
  • Allena la mente: leggi, impara una lingua, risolvi puzzle o fai giochi logici;
  • Dormi bene: durante il sonno il cervello si “ripulisce” anche dalla beta-amiloide;
  • Controlla la salute cardiovascolare: cuore sano, cervello sano;
  • Coltiva relazioni e interessi: socializzare protegge la memoria.

Piccoli cambiamenti, se mantenuti nel tempo, possono ridurre il rischio di sviluppare Alzheimer o ritardarne la comparsa. Il cervello è un muscolo prezioso: più lo usiamo e lo proteggiamo, meglio funziona.

L’importanza del tempo: prevenire è meglio che curare

Oggi sappiamo che la malattia inizia molto prima dei sintomi. Quando compaiono i primi problemi di memoria, il danno è già avanzato, e molte terapie non riescono più a fare effetto. Per questo motivo, la ricerca si sta spostando verso la prevenzione.

Alcuni studi internazionali hanno sperimentato anticorpi monoclonali (farmaci che colpiscono Aβ) su persone geneticamente a rischio, prima che mostrassero segni di malattia. Anche se i risultati sono stati modesti, si è visto che intervenire prima rallenta o blocca l’accumulo della protein.

Il futuro è nella diagnosi precoce, nell’individuazione di biomarcatori nel sangue e nell’avvio di trattamenti prima che la finestra terapeutica si chiuda. In attesa della cura definitiva, prendere il nemico in anticipo potrebbe fare la differenza.

I nuovi farmaci: Leqembi e Kisunla

Leqembi (lecanemab) e Kisunla (donanemab) nuovi farmaci contro l'Alzheimer.

Negli ultimi anni, sono stati approvati due farmaci innovativi per chi si trova nelle fasi iniziali dell’Alzheimer: Leqembi (lecanemab) e Kisunla (donanemab).

Entrambi appartengono alla categoria degli anticorpi monoclonali. Si tratta di farmaci “intelligenti”, progettati in laboratorio per riconoscere e attaccare in modo mirato un bersaglio specifico — in questo caso, la beta-amiloide. Funzionano come delle “bandiere” che si agganciano alla placca e ne facilitano la rimozione da parte del sistema immunitario.

Leqembi si somministra ogni due settimane tramite infusione endovenosa, mentre Kisunla ogni quattro settimane. Quest’ultimo ha anche la particolarità di essere un trattamento a durata limitata: quando le placche sono scomparse, si può sospendere la terapia.

Tuttavia, come ogni cura, ci sono potenziali effetti collaterali. Alcuni pazienti possono sviluppare gonfiore o piccole emorragie nel cervello, una condizione chiamata ARIA (Amyloid-Related Imaging Abnormalities). Queste alterazioni, rilevabili con la risonanza magnetica, in rari casi possono causare mal di testa, confusione, crisi epilettiche o, molto raramente, complicazioni gravi.

Per questo motivo, prima di iniziare il trattamento è necessario fare una risonanza magnetica e, se possibile, un test genetico per verificare la presenza dell’allele APOE ε4, che aumenta il rischio di questi effetti.

Disponibilità dei trattamenti in Italia

In Italia, Leqembi (lecanemab) ha ricevuto l’approvazione dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) nell’aprile 2025 per il trattamento dell’Alzheimer nelle fasi iniziali. Il farmaco è indicato per pazienti con lieve deterioramento cognitivo o demenza lieve dovuti alla malattia di Alzheimer, che presentano positività per placche di beta-amiloide e che non sono portatori o sono eterozigoti del gene ApoE4.

In Italia, il Centro per la malattia di Alzheimer e patologie correlate (CARD) dell’IRCCS San Raffaele di Milano è stato il primo a somministrare lecanemab, già dal settembre 2024, in regime di uso terapeutico controllato. 

Per quanto riguarda Kisunla (donanemab), al momento non è ancora approvato in Europa. L’EMA ha respinto la richiesta di autorizzazione a causa dei rischi associati, in particolare le anomalie ARIA, che si sono verificate più frequentemente nei pazienti trattati con donanemab rispetto al placebo.

Terapie sperimentali: nuove strade in corso

Oltre ai farmaci già approvati, la ricerca non si ferma. Diversi approcci sono attualmente in studio:

Saracatinib: un ex farmaco oncologico che nei topi ha riattivato le sinapsi (i ponti tra i neuroni) e migliorato la memoria. È in fase di sperimentazione clinica.

Sargramostim (Leukine): un farmaco immunostimolante che potrebbe aiutare il cervello a difendersi da proteine dannose. In uno studio preliminare ha migliorato le funzioni cognitive nei pazienti trattati.

Solanezumab: un altro anticorpo monoclonale, mirato alla beta-amiloide solubile. Purtroppo, non ha mostrato benefici clinici nei pazienti.

Infine, alcuni studi stanno cercando di bloccare la proteina Tau, ridurre l’infiammazione cerebrale o esplorare il legame tra salute del cuore e salute del cervello — dimostrando quanto l’Alzheimer sia una malattia complessa, che richiede un approccio a 360 gradi.

Conclusione: diagnosi precoce, ricerca continua, speranza concreta

L’Alzheimer resta una delle sfide più complesse della medicina moderna. Per anni abbiamo potuto solo attenuare i sintomi, ma oggi ci troviamo finalmente all’inizio di una nuova era: quella dei trattamenti che mirano a modificare il corso della malattia. I farmaci come Leqembi offrono segnali incoraggianti, soprattutto se somministrati nelle fasi molto precoci, quando i sintomi sono ancora lievi e il cervello conserva una buona riserva funzionale.

Ma questi progressi portano con sé una lezione fondamentaleil tempo è tutto. Per ottenere i massimi benefici, dobbiamo individuare la malattia prima che si manifesti in modo evidente. Ecco perché investire in screening, biomarcatori accessibili e sensibilizzazione pubblica sarà cruciale nei prossimi anni.

In parallelo, la ricerca prosegue, esplorando nuove terapie che agiscono su più fronti: dalla proteina Tau all’infiammazione, dal sistema immunitario alla connessione tra cuore e cervello. L’obiettivo non è solo curare, ma prevenire. E forse un giorno potremo parlare dell’Alzheimer come di una malattia gestibile, o addirittura evitabile.

Nel frattempo, il messaggio per chi vive con questa malattia — e per chi se ne prende cura — è che la scienza sta avanzando, e con essa cresce la speranza. Non è più un’utopia, ma un cammino concreto, fatto di piccoli ma continui passi in avanti.

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