Attaccamento emotivo: perché scegliamo persone sbagliate?

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– Di Asja Pisciotta

Attaccamento emotivo: coppia felice davanti allo specchio, il riflesso rivela tristezza e tensione emotiva.

Perché ci innamoriamo o affezioniamo di chi ci fa soffrire? Perché, nonostante le delusioni, torniamo sempre agli stessi schemi relazionali? La risposta non risiede solo nelle scelte consapevoli, ma in meccanismi profondi e spesso invisibili che affondano le radici nell’infanzia. L’attaccamento emotivo è il filo invisibile che collega le nostre esperienze precoci ai legami che costruiamo da adulti. Non si tratta di destino, ma di modelli interiorizzati che guidano, spesso in modo automatico, le nostre relazioni affettive.

Le radici dell’attaccamento di Bowlby

L’attaccamento emotivo è uno dei pilastri fondamentali della nostra vita relazionale, e le sue origini affondano nei primi anni dell’infanzia. La teoria dell’attaccamento, sviluppata da John Bowlby, ha rivoluzionato il modo in cui comprendiamo i legami affettivi: secondo Bowlby, il bisogno di vicinanza e protezione non è solo emotivo, ma biologico, inscritto nel nostro sistema nervoso come meccanismo di sopravvivenza.

A questa visione si è affiancato il contributo cruciale di Mary Ainsworth, psicologa e collaboratrice di Bowlby, che ha approfondito la teoria attraverso studi empirici. Grazie ai suoi esperimenti – in particolare la Strange Situation – Ainsworth ha identificato i diversi stili di attaccamento che si formano in risposta alla qualità delle cure ricevute. Questi modelli, interiorizzati fin da piccoli, influenzano profondamente il modo in cui ci relazioniamo da adulti: come scegliamo i partner, come viviamo l’intimità, e perché, talvolta, ci leghiamo a chi ci fa soffrire.

Nei paragrafi seguenti esploreremo le basi teoriche dell’attaccamento, i quattro principali stili identificati da Ainsworth, e il modo in cui le esperienze infantili plasmano le nostre relazioni adulte.

La teoria dell’attaccamento di Bowlby

John Bowlby, psicoanalista e psicologo britannico, è considerato il padre della teoria dell’attaccamento. Secondo Bowlby, il legame che si instaura tra il bambino e la figura di accudimento (solitamente il genitore) è fondamentale per lo sviluppo emotivo e relazionale dell’individuo. Questo legame non è solo affettivo, ma ha una funzione evolutiva: garantisce protezione, sicurezza e sopravvivenza.

Fin dai primi giorni di vita, il bambino ha un bisogno fondamentale di sentirsi al sicuro, protetto e accudito. Quando si trova in situazioni di stress, paura o disagio – come fame, dolore, solitudine – cerca istintivamente la vicinanza di una figura adulta che possa confortarlo. Questa figura è chiamata caregiver, termine che indica chi si prende cura del bambino in modo continuativo: spesso è la madre, il padre, o un altro adulto di riferimento, come un nonno o un educatore. Non è tanto il ruolo biologico a contare, quanto la qualità della presenza affettiva.

Il modo in cui il caregiver risponde a questi bisogni – con sensibilità, coerenza e disponibilità – ha un impatto profondo sullo sviluppo emotivo del bambino. Se l’adulto è presente in modo rassicurante, il bambino impara che il mondo è un luogo sicuro e che le persone sono affidabili. Questo porta alla formazione di un modello operativo interno positivo: una sorta di mappa mentale che guiderà il bambino nel modo in cui si relazionerà agli altri per tutta la vita.

Al contrario, se il caregiver è assente, imprevedibile, freddo o addirittura fonte di paura, il bambino può sviluppare un modello interno disfunzionale. In questo caso, il mondo viene percepito come instabile o minaccioso, e le relazioni future saranno vissute con ansia, diffidenza o bisogno eccessivo di controllo. Questi modelli non sono semplici ricordi, ma schemi profondi che influenzano il modo in cui ci leghiamo agli altri, scegliamo i partner e viviamo l’amore.

Winnicott e l’importanza della ‘’madre sufficientemente buona’’

Lo psicoanalista Donald Winnicott ha arricchito la teoria dell’attaccamento introducendo il concetto di “madre sufficientemente buona”. Secondo Winnicott, non è necessario che il caregiver sia perfetto, ma che sia in grado di rispondere ai bisogni del bambino in modo coerente, affettuoso e contenitivo. È proprio questa “sufficienza” – fatta di presenza, ascolto e adattamento – che permette al bambino di sviluppare un senso di fiducia nel mondo e in sé stesso. Quando la madre (o figura di riferimento) riesce a sostenere le frustrazioni del bambino senza invaderlo né abbandonarlo, si crea un ambiente favorevole allo sviluppo di un attaccamento sicuro e di un’identità stabile.

I quattro stili di attaccamento: sicuro, ansioso, evitante e disorganizzato

La teoria dell’attaccamento è stata successivamente ampliata da Mary Ainsworth, che ha identificato quattro principali stili di attaccamento:

  • Attaccamento sicuro: il bambino si sente amato e protetto. Da adulto, sarà capace di instaurare relazioni stabili, basate sulla fiducia e sulla reciprocità.
  • Attaccamento ansioso: il bambino riceve cure imprevedibili. Da adulto, può diventare dipendente affettivamente, temere l’abbandono e vivere relazioni intense ma instabili.
  • Attaccamento evitante: il caregiver è emotivamente distante. Il bambino impara a non chiedere aiuto. Da adulto, può evitare l’intimità e vivere relazioni superficiali o distaccate.
  • Attaccamento disorganizzato: il caregiver è fonte di paura o trauma. Il bambino vive un conflitto interno tra il bisogno di vicinanza e il timore. Da adulto, può manifestare comportamenti contraddittori, instabilità emotiva e difficoltà relazionali profonde.

Questi stili non sono rigidi né immutabili, ma influenzano fortemente il modo in cui scegliamo i partner e viviamo l’amore.

Come l’infanzia plasma le relazioni adulte

Le esperienze infantili non si limitano a influenzare il nostro carattere o temperamento: modellano in profondità il modo in cui ci relazioniamo agli altri, soprattutto nelle relazioni intime. I modelli di attaccamento che interiorizziamo nei primi anni di vita diventano veri e propri schemi relazionali automatici, che si attivano ogni volta che entriamo in contatto con l’intimità, la vulnerabilità o il bisogno di connessione.

Questi schemi non sono frutto di scelte consapevoli, ma di memorie emotive e sensoriali che si sono radicate nel nostro sistema nervoso quando eravamo troppo piccoli per verbalizzarle. Per esempio, chi ha vissuto un attaccamento ansioso – caratterizzato da cure imprevedibili, incoerenti o condizionate – tenderà da adulto a cercare conferme costanti, a temere l’abbandono e a vivere l’amore con una forte componente di insicurezza. Al contrario, chi ha sviluppato uno stile evitante, magari perché cresciuto con un caregiver emotivamente distante o poco disponibile, potrebbe fuggire di fronte all’intimità, evitando il coinvolgimento profondo per proteggersi da un dolore che teme di rivivere.

Spesso, senza rendercene conto, scegliamo partner che rispecchiano le dinamiche vissute nell’infanzia, anche quando queste ci hanno fatto soffrire. Non lo facciamo perché ci piace il dolore, ma perché il nostro cervello, in cerca di coerenza e familiarità, tende a riprodurre ciò che conosce, anche se non è sano. È un meccanismo di sopravvivenza emotiva: ciò che è familiare viene percepito come “sicuro”, anche quando ci danneggia.

Ed è proprio qui che nasce il paradosso dell’attaccamento: possiamo sentirci attratti da chi ci fa soffrire, non perché ci ama davvero, ma perché, in modo distorto e inconscio, ci ricorda il nostro primo amore, quello genitoriale. Quel legame originario, anche se imperfetto o doloroso, ha lasciato un’impronta profonda, e il nostro inconscio continua a cercarlo, nella speranza di “ripararlo” o di viverlo in modo diverso. Ma finché non diventiamo consapevoli di questi schemi, rischiamo di ripetere cicli relazionali che ci allontanano da noi stessi e da un amore autentico.

Perché ci leghiamo a chi soffre

A volte ci troviamo invischiati in relazioni che ci feriscono, ci destabilizzano o ci svuotano. Eppure, nonostante il dolore, fatichiamo a lasciarle andare. Questo paradosso affettivo non è frutto di debolezza o ingenuità, ma spesso affonda le sue radici in meccanismi psicologici profondi e inconsci. La psicologia dell’attaccamento, insieme alle neuroscienze e alla psicoanalisi, ci offre strumenti preziosi per comprendere perché siamo attratti da chi non ci fa bene.

Nei paragrafi seguenti esploreremo tre concetti chiave: la coazione a ripetere, le memorie implicite e il sistema di ricompensa cerebrale. Insieme, questi elementi ci aiutano a decifrare il mistero delle relazioni dolorose e a riconoscere i pattern che ci tengono intrappolati.

La coazione a ripetere: il bisogno inconscio di ‘’riparare’’ il passato

Sigmund Freud ha introdotto il concetto di coazione a ripetere per descrivere la tendenza dell’individuo a rivivere esperienze traumatiche o dolorose, anche quando queste generano sofferenza. In ambito relazionale, questo si traduce nel legarsi a persone che riproducono, in modo simbolico, dinamiche vissute nell’infanzia.

Chi ha avuto un genitore emotivamente distante, critico o imprevedibile, può cercare partner simili, nel tentativo inconscio di “riparare” quel legame originario. È come se il nostro inconscio dicesse: “Se riesco a farmi amare da questa persona, allora non ero io il problema.” Ma questa ricerca di redenzione spesso si trasforma in un ciclo di frustrazione e dolore.

Questa dinamica non è frutto di razionalità, ma di un bisogno profondo e radicato di dare un senso a ciò che ci ha feriti. Il nostro sistema emotivo, nel tentativo di chiudere un cerchio rimasto aperto, ci spinge verso situazioni che ci ricordano, anche solo a livello simbolico, quelle esperienze originarie. È una forma di ripetizione inconscia, dove il passato non viene solo ricordato, ma rivissuto attraverso nuovi volti e nuove relazioni.

Il paradosso è che, pur cercando inconsciamente di guarire, finiamo per riattivare la ferita, alimentando la stessa sofferenza che volevamo superare. Questo meccanismo può essere talmente radicato da farci confondere il dolore con l’amore, l’instabilità con la passione, e la tensione emotiva con il coinvolgimento. Solo attraverso la consapevolezza e l’elaborazione di questi schemi possiamo interrompere il ciclo e iniziare a costruire relazioni che non siano una replica del passato, ma una scelta autentica nel presente.

Il ruolo delle memorie implicite e dei copioni relazionali

Le memorie implicite sono tracce emotive e sensoriali che si formano nei primi anni di vita, prima che il linguaggio e la coscienza siano pienamente sviluppati. Non le ricordiamo in modo narrativo, ma le “sentiamo” nel corpo e nelle reazioni automatiche. Queste memorie alimentano i copioni relazionali, ovvero schemi interiorizzati che guidano il modo in cui ci comportiamo nelle relazioni.

Se da bambini abbiamo imparato che l’amore è instabile, condizionato o doloroso, tenderemo a cercare relazioni che confermino quel modello. Non perché ci piaccia soffrire, ma perché il nostro cervello cerca coerenza con ciò che conosce. Cambiare questi copioni richiede consapevolezza, tempo e spesso un percorso terapeutico.

Il sistema di ricompensa cerebrale e l’illusione della felicità

Il neuroscienziato Allan Schore ha evidenziato come le esperienze di attaccamento nei primi anni di vita influenzino direttamente lo sviluppo cerebrale, in particolare delle aree coinvolte nella regolazione emotiva, nella gestione dello stress e nella costruzione dell’identità. Secondo Schore, l’interazione con un caregiver sintonizzato e responsivo favorisce la maturazione del sistema nervoso centrale, mentre relazioni disfunzionali o traumatiche possono alterare il funzionamento di circuiti fondamentali, come quelli legati alla dopamina e alla risposta allo stress. Questo spiega perché l’attaccamento non è solo psicologico, ma anche biologico: il modo in cui siamo stati amati plasma il modo in cui il nostro cervello impara ad amare.

Infatti, il nostro cervello è programmato per cercare piacere e evitare il dolore, ma non sempre distingue tra ciò che è sano e ciò che è familiare. Questo è uno dei grandi inganni dell’attaccamento disfunzionale: ciò che abbiamo vissuto nell’infanzia – anche se doloroso o instabile – può diventare il nostro punto di riferimento emotivo. Il cervello, in cerca di coerenza con le esperienze passate, tende a interpretare come “normale” ciò che è semplicemente conosciuto, anche se ci fa soffrire. Così, relazioni basate su tensione, insicurezza o distanza emotiva possono apparire paradossalmente “giuste”, solo perché ci ricordano il modo in cui abbiamo imparato a ricevere amore.

Il sistema di ricompensa cerebrale, che coinvolge la dopamina, può attivarsi anche in relazioni tossiche, soprattutto quando l’affetto è intermittente o imprevedibile. Questa dinamica è simile a quella del gioco d’azzardo: l’incertezza genera attesa, e ogni piccola “ricompensa” (un gesto affettuoso, una parola gentile) viene vissuta come intensamente gratificante. Il risultato è un legame dopaminico, che ci tiene agganciati nonostante la sofferenza. È un’illusione di felicità che confonde il desiderio con l’amore, e la familiarità con la sicurezza.

Per uscire da questo circolo vizioso, è fondamentale imparare a riconoscere la differenza tra ciò che ci è familiare e ciò che ci fa davvero bene. L’amore sano non genera ansia costante, non ci fa sentire inadeguati, e non ci tiene in sospeso. È stabile, nutriente e coerente anche se, all’inizio, può sembrare “strano” proprio perché diverso da ciò a cui siamo abituati.

I segnali di un attaccamento disfunzionale

Riconoscere i segnali di un attaccamento disfunzionale è il primo passo verso la consapevolezza e la trasformazione. Spesso, questi segnali si manifestano sotto forma di comportamenti che sembrano “normali” o addirittura romantici, ma che in realtà nascondono paure profonde, bisogni irrisolti e schemi relazionali distorti. La psicologia dell’attaccamento ci aiuta a decifrare questi segnali e a comprendere come si collegano alle esperienze infantili e ai modelli interiorizzati.

Dipendenza affettiva e paura dell’abbandono

La dipendenza affettiva si manifesta quando il bisogno di essere amati supera la capacità di stare bene con sé stessi. Chi ne soffre tende a sacrificare i propri bisogni, limiti e desideri pur di mantenere il legame con l’altro. La paura dell’abbandono diventa il motore di ogni scelta, e il partner viene vissuto come l’unica fonte di sicurezza e valore personale.

Questo tipo di attaccamento è spesso radicato in esperienze infantili di trascuratezza emotiva, instabilità o rifiuto. Il bambino che non ha ricevuto amore in modo coerente può crescere con la convinzione di dover “meritare” l’affetto, sviluppando una dipendenza relazionale che si ripete in età adulta.

Idealizzazione del partner e negazione del dolore

Un altro segnale di attaccamento disfunzionale è l’idealizzazione del partner, ovvero la tendenza a vedere l’altro come perfetto, salvifico o superiore, ignorando i segnali di malessere o incompatibilità. Questo meccanismo difensivo serve a proteggere il legame, anche quando è fonte di sofferenza.

La negazione del dolore è spesso associata a questa idealizzazione: si minimizzano le ferite, si giustificano comportamenti tossici, e si evita di affrontare la realtà per paura di perdere l’illusione dell’amore. In fondo, si preferisce soffrire piuttosto che affrontare il vuoto che l’assenza dell’altro potrebbe generare.

Relazioni instabili e attrazione per l’imprevedibilità

Molte persone con attaccamento disfunzionale si sentono attratte da relazioni instabili, intense e imprevedibili. L’alternanza tra vicinanza e distanza, tra amore e rifiuto, genera un’emozione forte che viene scambiata per passione. Ma in realtà, è il riflesso di un modello relazionale interiorizzato, spesso legato a figure genitoriali incoerenti o ambivalenti.

L’imprevedibilità attiva il sistema nervoso in modo simile a una situazione di pericolo: il corpo è in allerta, il cuore accelera, e ogni gesto affettuoso diventa una “ricompensa” che rinforza il legame. Questo ciclo può diventare una vera e propria dipendenza emotiva, difficile da interrompere senza consapevolezza e supporto.

In questo contesto, si manifesta spesso anche una forma sottile ma potente di autosabotaggio: la persona, pur desiderando relazioni sane e stabili, tende inconsciamente a sabotare ogni legame che non riproduce la tensione emotiva a cui è abituata. Relazioni equilibrate possono apparire noiose o “poco coinvolgenti”, mentre quelle instabili sembrano più intense e “vere”. Questo porta a scelte che contraddicono i propri bisogni profondi, alimentando un circolo vizioso in cui si cerca l’amore ma si finisce per respingerlo quando si presenta in forma sana.

Come spezzare il ciclo delle relazioni sbagliate

Riconoscere di essere intrappolati in relazioni che ci fanno soffrire è già un atto di coraggio. Ma uscire da questi schemi richiede molto più che forza di volontà: serve consapevolezza, comprensione profonda dei propri modelli interiori e, spesso, un percorso di guarigione guidato. La psicologia contemporanea ci offre strumenti potenti per interrompere il ciclo delle relazioni disfunzionali e costruire legami più sani e autentici.

Consapevolezza e ristrutturazione dei modelli interiori

Il primo passo per spezzare il ciclo è diventare consapevoli dei copioni relazionali che guidano le nostre scelte affettive. Questi modelli, spesso inconsci, si sono formati nell’infanzia e si attivano automaticamente nelle relazioni adulte. Osservarli senza giudizio, riconoscerne le origini e comprendere come influenzano il nostro comportamento è fondamentale.

La ristrutturazione di questi modelli avviene attraverso il dialogo interiore, la riflessione e, talvolta, l’esposizione a relazioni diverse da quelle abituali. È un processo lento, ma liberatorio: ci permette di distinguere tra ciò che è familiare e ciò che è sano, tra ciò che ci attira e ciò che ci nutre davvero.

Il potere della psicoterapia: dall’attaccamento alla guarigione

La psicoterapia è uno degli strumenti più efficaci per trasformare i modelli di attaccamento disfunzionali. Attraverso la relazione terapeutica – che può diventare una nuova “base sicura” – la persona ha l’opportunità di sperimentare un legame fondato sulla fiducia, sull’ascolto e sulla coerenza.

Approcci come la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia psicodinamica o la terapia focalizzata sull’attaccamento aiutano a esplorare le radici del dolore relazionale e a costruire nuove modalità di connessione. Il terapeuta non “aggiusta” la persona, ma la accompagna nel processo di riconnessione con sé stessa e con gli altri.

Neuroplasticità e nuove connessioni emotive

La neuroplasticità è la capacità del cervello di modificarsi, creare nuove connessioni e adattarsi in risposta all’esperienza. Questo significa che, anche se abbiamo vissuto relazioni disfunzionali, possiamo “riprogrammare” il nostro sistema emotivo attraverso esperienze relazionali positive e consapevoli.

Ogni volta che scegliamo di rispondere in modo diverso, di porre un limite sano, di accogliere l’amore senza paura, stiamo creando nuove tracce neurali. La guarigione non è solo psicologica, ma anche biologica: il cervello cambia, e con lui cambia il modo in cui viviamo l’amore.

Conclusione: scegliere con la mente e con il cuore

Le relazioni affettive non sono semplici equazioni emotive: sono intrecci complessi tra desideri, paure, bisogni e memorie profonde. Comprendere i meccanismi dell’attaccamento ci permette di guardare con maggiore lucidità alle nostre scelte relazionali, senza colpevolizzarci, ma con la volontà di evolvere. L’obiettivo non è diventare “perfetti” nelle relazioni, ma consapevoli: capaci di distinguere tra ciò che ci attira per abitudine e ciò che ci nutre davvero.

L’equilibrio tra emozione e razionalità

Amare non significa perdere sé stessi nell’altro, né vivere le relazioni come calcoli freddi. Il vero equilibrio sta nel integrare il cuore e la mente, lasciando spazio all’emozione ma senza rinunciare alla lucidità. Questo significa saper ascoltare i propri sentimenti, ma anche riconoscere quando una relazione ci danneggia, ci limita o ci allontana da chi siamo.

La razionalità non deve spegnere il sentimento, ma proteggerlo: ci aiuta a porre limiti, a scegliere con consapevolezza, a distinguere tra amore e dipendenza. Quando emozione e pensiero collaborano, le relazioni diventano più autentiche, più libere e più capaci di durare.

Imparare a riconoscere l’amore sano

L’amore sano non è privo di conflitti, ma è fondato su rispetto, reciprocità e crescita. È un legame che ci fa sentire liberi, non imprigionati; che ci sostiene nei momenti difficili, senza farci sentire inadeguati. Riconoscerlo significa uscire dai modelli disfunzionali e imparare a scegliere chi ci fa bene, non solo chi ci fa “sentire qualcosa”.

Per farlo, serve tempo, introspezione e, spesso, un percorso di guarigione. Ma ogni passo verso la consapevolezza è un passo verso relazioni più vere, più profonde e più luminose. Perché scegliere con la mente e con il cuore non è un compromesso: è un atto d’amore verso sé stessi.

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